UN CHIRURGO DA SAN CAMILLO ALL'AFRICA
 

Ho sempre pensato che fare il medico fosse una scelta giusta per essere vicino alle necessità del prossimo e fare il chirurgo una scelta pragmatica, adatta al mio temperamento.

Distolto dalle mie aumentate responsabilità professionali più che da quelle familiari comunque condivise, ho potuto dedicarmi al volontariato solo dopo il pensionamento a 65 anni. Vecchietto, ma ancora in gamba, mi sono messo a disposizione nella maniera che avrei sempre preferito: senza la necessità di farmi pagare. Infatti il mio lavoro mi è così piaciuto che l’avrei fatto anche gratis. Per fortuna nessuno se ne è accorto; ora ci avrebbe pensato l’INPS.

La mia intenzione era nota e ho avuto subito alcune proposte.

La prima è stata quella di organizzare un pronto soccorso in una comunità fondata da un volontario veneto in Guinea Bissau. Egli però è morto prima di iniziare ed essendo per di più il segretario (con il quale avevo preso accordi) fuggito con la cassa, persi contemporaneamente scopo e destinazione.

La seconda proposta, quella buona, è stata quella di unirmi al gruppo di oculisti di Piove di Sacco, che  già andavano in Kenya  all’ospedale di North Kinangop che la Diocesi di Padova ha fondato nel 1965 e che continua ad amministrare.

La proponente è stata una strumentista già mia collaboratrice che era già stata lì.

I termini sono stati: la struttura consente di lavorare, c’è da fare, e soprattutto l’Amministratore è uno con il quale potresti andare d’accordo. La proposta era concreta e non sono rimasto deluso.

L’ospedale, di 160 posti letto, è disposto a padiglioni collegati da tettoie in una zona molto bella a 180 km a nord est di Nairobi, ai piedi della catena dell’Aberdare, distretto del Nyandarua, a 2600 mt di altezza.

Vi lavoravano all’epoca quattro colleghi molto preparati, specialmente il chirurgo e l’ostetrico, e il personale infermieristico era sufficiente e fornito di una buona preparazione tecnica.

La presenza di specialisti stranieri era vista come un’occasione di confronto.

L’Amministratore poi, don Giovanni Dalla Longa, era un sacerdote ricco di carisma e di pietà. A lui sono stato legato da un rapporto di fraterna amicizia durato sette anni. La sua malattia mi ha addolorato e alla sua morte ho pianto. A conforto di una così amara perdita è rimasto l’ospedale di North Kinangop, segno che la finalità quando è nobile prevale sugli affetti personali.

Posso dire di non avere avuto grossi problemi di inserimento, ma alcuni sì, per esempio come giustificare la mia laurea in medicina conoscendo solo poche parole di inglese, che in Kenya è la lingua della scuola e dell’università.

La prova pratica invece l’ho superata dopo un paio di giorni. Il chirurgo locale, peraltro bravo, mi invitò  ad operare  un gozzo tiroideo, intervento non frequente né dei più facili. Non mi spiegavo i presupposti di tanta stima. Mi sono stati chiari il giorno dopo, quando il collega mi ha proposto di operare un giovane di 23 anni con segni di recidiva di cancro alla tiroide. Riteneva di potersi fidare e aveva bisogno di una mano.

Quella è stata per me un’esperienza molto importante perché il giorno dopo l’intervento, andando in cerca dell’operato (non ero ancora ben orientato per le stanze), me lo sono trovato alle spalle che mi seguiva per salutarmi e ringraziarmi. Tre ore e mezzo di intervento non avevano compromesso la sua volontà di esprimere simpatia.

Ad un chirurgo fa sempre piacere sentire la voce forte e chiara di un operato di tiroide, quella volta però non è stato solo tranquillizzante, ma anche commovente: avevo trovato il senso vero delle relazioni umane.

Nei primi tempi mi sorprendeva il fatalismo che permeava i pazienti, non ben consci che la salute è un diritto di tutti. Però capivo che ne potessero trarre forza per accettare le loro condizioni e sopportare situazioni anche dolorose con una soglia di resistenza molto più alta di quella dei nostri malati.

Mi turbava di più la passiva accettazione degli eventi da parte degli operatori. Ho speso parecchio di mio per spiegare il concetto che un chirurgo senza struttura dove operare non serve molto, ma anche che una struttura sufficientemente dotata deve avere un chirurgo a disposizione: ne va della sua credibilità più che dell’efficienza.

I volontari possono organizzarsi per assicurare al chirurgo titolare le ferie. Cose da ricchi.

Si è superato anche il concetto prettamente assistenzialista dell’attività ospedaliera, che ha comportato soprattutto un diverso atteggiamento degli operatori che hanno imparato a non sprecare, a non trascurare le risorse e le attrezzature. I pazienti hanno sempre contribuito in piccola parte alle spese.

Era deludente per me dover ripetere ogni anno le stesse raccomandazioni: ordine negli stores, cura degli strumenti e delle attrezzature, igiene chirurgica, responsabilità. Scontate nel merito, ma difficili da trasmettere nel metodo, anche se ritengo che le regole della chirurgia si possono esportare più facilmente che non quelle della democrazia.

Quando ero proprio esasperato mi soccorreva don Giovanni: ricordati anche di Colui per il quale lavoriamo.

Bel colpo! La mia è stata fin dall’inizio una scelta laica. All’invito di andare, testimoniare e curare i malati, ho risposto preoccupandomi di saper fare soprattutto il mio mestiere, ma evidentemente ciò non è sufficiente.

Certo che se non sei tollerante, pietoso, disposto al sacrificio personale, non vai a far del bene né in Africa né altrove. Ovunque aiuta lavorare per il Datore di lavoro giusto.

Non considero la mia esperienza africana conclusa; lo spirito missionario è quello di sempre, come la voglia di fare. L’Africa attira. È  vero che nel frattempo sono diventato ancora più “vecchietto” e sicuramente meno in gamba, ma l’esperienza fatta a North Kinangop, l’unica realtà africana che conosco, ha un certo valore se messa a disposizione dei nuovi volontari.

Forte anche di un esplicito riconoscimento: sei il più africano dei medici europei. Alleluia.

 

Renzo Fogar

 

 

 

 

 

I piccoli pazienti operati in braccio alle loro madri. Spesso il cosiddetto “giro” (la visita dopo l’intervento) si completa nel prato retrostante il reparto.
 

Renzo Fogar con la moglie, biologa, che spesso lo ha accompagnato, occupandosi del laboratorio

Veduta aerea dell’ospedale che comprende le officine, gli alloggi per il personale, la chiesa e, in alto a destra, la campagna coltivata
 

L’Africa, con un freccia che indica il Kenia

torna all'indice - Vita Nostra maggio 2007 - anno 2 numero 2