LA PARROCCHIA DI VIA DUE PALAZZI

Non è facile descrivere in poche righe l’esperienza che, da giugno, stiamo vivendo una volta al mese all’interno delle carceri come gruppo di animazione delle liturgie eucaristiche.

Non è facile perché tutti sentiamo  parlare delle carceri, ultimamente soprattutto per i temi legati al sovraffollamento, ma restano comunque una realtà lontana che, per certi versi, crea imbarazzo e smarrimento.

Il nostro amico Guido, per molti anni componente del coro Lellianum come maestro alle tastiere, ci parlò della sua esperienza come partecipante ad una messa in carcere, di quanto ne fosse rimasto colpito e del suo desiderio di trovare altre persone disposte a condividere con lui questo servizio.

Pur con tante perplessità e insicurezze legate alla paura di non essere all’altezza dell’impegno che ci veniva richiesto, in spirito di servizio, ci siamo lasciati coinvolgere in questa avventura che ci ha spalancato un mondo così lontano da quello dove siamo abituati a muoverci, ma carico di emozioni e soprattutto di umanità.

Nostri compagni di viaggio (siamo 10 persone del Coro e altre 10 di altre parrocchie limitrofe, ci diamo il turno perché non vengono accettate più di 10 persone a domenica) sono il diacono Marco Longo, impegnato nella catechesi all’interno delle carceri e nostro coordinatore, e don Marco Pozza, cappellano delle carceri: grande sacerdote e grande uomo!

La prima cosa che ti colpisce, percorrendo i lunghi corridoi che dall’entrata ti portano fino alla piccola cappella dove viene celebrata la Messa delle 8,30 per un ristretto numero di persone, è vedere tutte le pareti ricoperte di murales coloratissimi che riproducono, perlopiù, paesaggi ameni e pieni di luce. “Sono opera dei miei ragazzi”, ci spiega Don Marco, usando questa espressione affettuosa che, molto spesso, gli abbiamo sentito pronunciare anche durante le omelie. E i suoi ragazzi arrivano un po’ alla “spicciolata”: ci salutano, ci stringono le mani e, ancor prima di sapere il perché della nostra presenza fra di loro, ci ringraziano. Insieme si canta, si ascolta la parola, si prega …

I momenti di silenzio sono rotti solamente dal verso un po’ stridulo dei gabbiani che, a frotte, si riuniscono nello spazio verde tra i due blocchi carcerari.

Alle 10,30 si replica in una sala molto più grande che ricorda un po’ le aule universitarie o un palazzetto dello sport (qui vengono fatte attività diverse come laboratori, spettacoli di cinema e teatro …).

Le persone che partecipano a questa Messa sono circa duecento, di età diverse, di diversa estrazione e di diverso colore ma, da quando parte la prima nota del canto d’ingresso, si ha la forte sensazione di essere un’unica famiglia, fatta di uomini con la loro sensibilità, le loro solitudini, le loro debolezze, i loro sbagli, ma sempre e solo uomini!

Don Marco la chiama “la mia Parrocchia”.

Il vivere insieme la Messa, condividere l’esperienza   forte  del  fare  comunione, ascoltare parole che scendono fino in fondo al cuore e che sono liberatorie perché non giudicano, non additano ma infondono fiducia e speranza, apre la mente a nuovi orizzonti che vanno al di là di quelle sbarre che ostacolano ogni libertà.

Siamo ormai abituati a condividere l’esperienza della Messa della domenica nella nostra Chiesa, insieme a persone che, magari, conosciamo da tanto tempo e che sentiamo amiche. Queste Messe in carcere sono un’esperienza di condivisione … diversa.

Anna ed Egle

 

 

 

Lo riconoscete? È il nostro libretto dei canti … ma ora è anche il libretto dei canti delle Messe in carcere. Ecco la storia: quando siamo andati per la prima volta in carcere, abbiamo visto che utilizzavano un libretto molto malridotto. Bene, dovete sapere che, quando alcuni anni fa è stato preparato il “nostro” libretto dei canti, ne sono state stampate molte copie in più, per averne di riserva e perché la differenza di costo era minima … così, ne abbiamo parlato a P. Roberto che ha accettato con entusiasmo di offrirne 200 copie … e ora in carcere utilizzano questo libretto. È quasi come se, tutte le domeniche, fossero insieme alla nostra comunità

 

 

 


INSEGNARE IN CARCERE

Quando, nell’ormai lontano 1998, mi è stato chiesto di insegnare in carcere, in un corso per geometri a cui il gruppo degli Operatori Volontari Carcerari pensava da tempo, non mi sono posta tante domande e ho subito accettato. In fondo, l’insegnamento era stato per 40 anni il mio lavoro. Solo dopo, a poco a poco, ho tentato di approfondire le ragioni della mia scelta istintiva e forse un po’ incosciente e ho capito che a spingermi in quella che, a tutti gli effetti, era una scommessa, un’avventura senza alcuna certezza di successo, è stata la convinzione che nel carcere si debbano creare tutte le condizioni possibili, anche le più modeste, perché una persona possa compiere un viaggio di revisione all’interno di sé, decidendo di cambiare e di ricominciare. In quest’ottica il lavoro e la scuola sono due pilastri indispensabili perché il cammino di una persona detenuta possa avere un esito positivo.

In concreto, il corso per geometri “è partito”, pur tra mille difficoltà: penso al faticoso reperimento degli insegnanti e dei locali in cui insegnare, all’atteggiamento non sempre collaborativo degli agenti penitenziari, alla aleatorietà degli studenti, a volte improvvisamente trasferiti altrove o spesso indecisi tra le ore di lezione e la prevista e desiderata ora d’aria, ai problemi di collegamento con la scuola pubblica per gli esami di fine anno. Il corso all’inizio aveva 15 studenti, rapidamente ridottisi a 5: due di questi si sono diplomati con esiti diversi. Uno di loro, espiata la pena, è stato riaccolto in famiglia (che non lo aveva mai abbandonato) ed ora lavora con soddisfazione in una cooperativa che si occupa di giardinaggio. L’altro, che da piccolo era stato adottato due volte e poi due volte rifiutato, alla prima occasione, mentre stava andando con un volontario all’università, è fuggito ed è stato ripreso, con le conseguenze che tutti possiamo immaginare.

Naturalmente oggi mi chiedo: posso parlare di un’esperienza di successo o di un fallimento? Se si ragiona in termini percentuali, non c’è dubbio che molto del lavoro mio e del mio gruppo sia andato perduto, ma è anche vero che ciò che spinge i volontari ad impegnarsi in questa e in altre “avventure”, è la consapevolezza o la certezza che in carcere qualcosa o qualcuno può cambiare.

Scrive don Marco Pozza in un suo recente editoriale: «Questo non è ottimismo a basso prezzo, è il volto più lucente della speranza cristiana». 

Andreina Celli Berti                                    

 

torna all'indice - Vita Nostra dicembre 2013 - anno 8 numero 4