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LA CASA DEI GIULIANO- DALMATI: profughi che parlavano italiano (ed erano italiani!). Testimonianza di un’esule istriana
 

Era il 29 maggio 1947 quando io,  bambina, al braccio di mamma e papà abbandonavo la mia bellissima e amata città natale, Rovigno d’Istria, dove da generazioni i miei antenati avevano visto la  luce.

Quanta tristezza nei nostri occhi e quanto dolore nel cuore nell’affrontare quel momento di grande sconforto! Perché fuggivamo dalla terra degli avi così bella e accogliente da essere esaltata da chi oggi la visita?

Il 10 febbraio 1947 il Trattato di Parigi sanciva la definitiva cessione di quasi tutta la Venezia Giulia  e  Dalmazia,  italiane da 2000 anni, alla Jugoslavia del maresciallo Tito.

 Per 120 anni quelle terre, prima latine poi veneziane, erano state sotto la sovranità austriaca, dal 1797, quando  Napoleone aveva ceduto Venezia all’Austria, fino alla conclusione della Prima guerra mondiale, senza che nessun italiano sentisse il bisogno di scappare, perché erano stati rispettati la nostra nazionalità, i nostri beni, la nostra cultura. 

Ora invece, improvvisamente, la terra natale ci diventava straniera per lingua, religione, cultura, usi e costumi e ideologia, in un regime politico che ci opprimeva e distruggeva le chiese, ci confiscava i beni personali e aziendali, ci toglieva la libertà e persino la speranza di vedere riconosciuti i nostri diritti di italiani, se fossimo rimasti lì, per non parlare delle violenze subite con gli infoibamenti del settembre 1943 e soprattutto con quelli più numerosi  del maggio 1945, a guerra finita.  Perciò  il  90% della popolazione italiana, ma in piccola percentuale anche slava, preferì  il doloroso esilio  al clima ostile e vessatorio che si era instaurato.

Si partiva sapendo che non saremmo più ritornati. Abbandonavamo con la disperazione e la morte nel cuore quanto ci era di più caro: la casa, il lavoro, la sicurezza, gli amici, le nostre belle tradizioni, il calore dei nostri rioni, i morti al cimitero. Dovevamo mantenere la libertà e l’identità italiana. Italiani due volte, una per nascita, l’altra per scelta, anche se forzata, in quanto,  secondo l’articolo del trattato di pace sull’opzione, coloro che votavano per rimanere italiani erano costretti ad andarsene, in caso contrario  potevano rimanere, ma diventando jugoslavi.

Io ero piccola e non comprendevo bene il senso di tutto quello che stava succedendo, anche se intuivo che si trattava di un momento terribile, pieno di paura e di tensione. La maggioranza optò per l’Italia  e partì.  I miei affrontarono l’esilio con la consapevolezza di chi sa che cosa perde nel momento della vita in cui  molto solide erano le radici nella terra natale, dove si pensava di poter trascorrere serenamente il resto della vita. Lo strappo per loro fu doloroso, la lacerazione profonda, la ferita mai più rimarginata, non solo perché perdevano tutto quello che possedevano, ma soprattutto per l’avventura verso l’ignoto che si apprestavano ad affrontare. Fu duro per tutti, ma soprattutto per quelli che dovettero subire lo squallore dei campi profughi, anche per tanti anni, senza una casa, un lavoro  e possibilità di sostentamento.

 In quei primi momenti dell’esilio soffrimmo soprattutto perché nel clima politico di allora i profughi erano accusati di essere dei fascisti che fuggivano per non incorrere nelle ire e nelle  “punizioni” di Tito. Non era vero! I Fascisti, responsabili della politica del ventennio, erano già fuggiti dopo l’8 settembre.  Noi eravamo italiani di tutti gli strati sociali che soffrivano sotto il regime di Tito, non approvando la sua politica di slavizzazione delle nostre terre e i metodi usati  per farci fuggire.

Affrontare l’esodo non fu facile per nessuno, anche perché per molti, soprattutto per quelli che uscirono in massa da Pola con la nave Toscana, o per quanti erano raccolti nei numerosi Campi profughi, l’accoglienza  risultò ostile in una madrepatria insensibile alle scelte degli esuli giuliano-dalmati. In questi casi, invece di aiutarli e di tendere una mano, li guardavano con sospetto, diffidenza e talvolta con rabbia. Ma a nessuna di quelle persone che li insultavano veniva in mente che solo noi pagavamo un prezzo altissimo  per una guerra perduta da tutta l’Italia fascista.

Per la mia famiglia l’esodo fu un’odissea. Prima ospiti di parenti a Strassoldo del Friuli, poi a Nervesa della Battaglia, quindi a Valdobbiadene, dove mio zio, fratello della mamma che viveva con noi, ottenne un posto di economo-cassiere all’Ospedale civile, attività che aveva svolto a Rovigno per 25 anni. Mio zio era una persona onesta, integerrima, eppure, nel maggio-giugno 1945, aveva subito per due volte la dolorosa detenzione.

In questa bella cittadina  frequentai le scuole medie  e poi il liceo classico  a Treviso, naturalmente con sistemazione in collegio, dalla suore di S. Anna.  Fu un grande sacrificio per i miei farmi continuare gli studi classici che prevedevano poi l’Università, ma assecondarono la mia passione e predisposizione allo studio, ascoltando anche i consigli della professoressa di Lettere. Io li ricompensai con un buon profitto che mi  permise di vincere numerose  borse di studio. Finalmente, nel 1954, dovendo io frequentare l’Università, dopo averne fatto richiesta, ottenemmo dall’Ope-ra Profughi, grazie anche al finanziamento dello Stato, una casa a riscatto a Padova in via Perin, zona S. Osvaldo, e un po’ alla volta ci sistemammo in questa città che nei confronti degli esuli si dimostrò sempre aperta e disponibile, in sintonia con lo stesso atteggiamento di amicizia tenuto nei secoli verso le terre venete d’Istria e Dalmazia.

Dopo le case fatiscenti in cui avevo abitato fino ad allora, quella di Padova, elegante, anche se piccola e modesta, mi sembrò una “ reggia”. Nel 1960 un gruppo di giuliano-dalmati  costituì una cooperativa e con il finanziamento dello stato e dell’Opera giuliano-dalmata  riuscimmo nel 1963 a sistemarci nel condominio di via Monaco Padovano che continuo ad abitare.  C’era il prof. Carletto, Preside della scuola media Falconetto, il dott. Parenzan, il prof. Manzin primario di Anestesia e Rianimazione dell'ospedale di Padova; c’è ancora il prof. Millevoi della facoltà di matematica … La Parrocchia di S. Camillo ci accolse con comprensione, rispetto e benevolenza e sono felice di farne ancora parte.

Sono stata fortunata, a differenza di tanti altri esuli che dovettero combattere contro pregiudizi e incomprensioni.  Ma anche se a fatica  tutti, forti dei nostri principi e dei nostri valori, con coraggio, impegno, determinazione e grande discrezione, aiutati poi  anche dalle istituzioni,  un po’ alla volta siamo riusciti a inserirci nel tessuto socio-economico della madrepatria, dando un senso alla nostra vita, così drammaticamente sconvolta. 

Franca Dapas Potenza

 

Il papà, la mamma,  che è morta presto nel 1976, e lo zio.  Sono in via Monaco Padovano, davanti al Condomino "Giuliano" al n°2 che era in costruzione

 

 Il papà e lo zio, ormai anziani e felici  perché li avevamo fatti trasferire nel nostro condominio, al primo piano, quindi vicini a noi che li abbiamo aiutati fino alla morte. Erano parrocchiani sempre presenti alla Messa domenicale

 

 

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