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Se vedeva un compagno o un giovane novizio prestare assistenza a un malato in maniera tiepida o addirittura distratta, li apostrofava decisamente: “Più cuore in quelle mani, fratello!”.
Oltre quattrocento anni fa, a Roma, un abruzzese dalla testa dura ma dal cuore tenero ha dato inizio ad un movimento di riforma dell’assistenza sanitaria che ha segnato profondamente la sua epoca.
I quattro secoli e mezzo che da allora sono passati sono tanti! Ha senso parlare dell’attualità di quest’uomo, in un’epoca che vede grandi e rapidi cambiamenti e che consuma in fretta i suoi eroi? Ciò che lui ha fatto nel suo tempo per la sanità dice qualcosa anche a noi oggi?
Siamo nella seconda metà del 16° sec. L’Italia è politicamente divisa in tanti stati, con frequenti guerre interne. L’Europa è minacciata dalla pressione dell’invasione dei Turchi ad est. Per effetto delle frequenti guerre, le carestie e le epidemie di peste, il tifo, la sifilide e la malaria mietono migliaia di vittime. Le città sono piene di mendicanti e di poveri malati e abbandonati, privi di ogni protezione.
Alla dolorosa frattura della riforma di Lutero, la Chiesa cattolica reagisce con il concilio di Trento avviando un profondo rinnovamento, tra il clero e tra i fedeli. Viene così promosso il ritorno alla fedeltà al Vangelo e all’ardore della Chiesa primitiva. Grandi figure del rinnovamento spirituale sono Carlo Borromeo a Milano, Ignazio di Loyola e Filippo Neri a Roma, i fondatori di tanti ordini religiosi. Fra i laici, fioriscono molte istituzioni caritative in risposta ai bisogni sociali, “specializzate” nell’assistenza ad orfani, poveri, incurabili…
Per quanto riguarda la sanità, assistiamo a gravi carenze nell’assistenza: nessuna igiene, poca professionalità, poca umanità. Non esiste il profilo profes¬sionale dell’infermiere: semplici servitori, incompetenti e rozzi affiancano i pochi medici. I malati ricchi sono curati a casa, gli ospedali pubblici sono per i poveri.
Camillo nasce il 25 maggio1550, a Bucchianico (Chieti). Dopo la morte della mamma e più tardi del papà, sceglie decisamente la vita militare. Partecipa ad alcune campagne, a servizio a volte della repubblica di Venezia, altre della Spagna, distinguendosi per la sua forza (lo chiamano “il gigante” a motivo della notevole statura) e per l’accanita passione per il gioco.
Per curare una fastidiosa piaga alla gamba destra, è ricoverato all’ospedale di S. Giacomo degli Incurabili (Roma) dove, per pagarsi le spese di degenza, viene assunto come inserviente. Indisciplinato e cattivo infermiere (“di molto terribile cervello” dicono di lui), tratta male i malati, abbandona spesso il lavoro in corsia per correre a giocare in riva al Tevere. Appena guarito, viene licenziato e ritorna a fare il soldato.
Durante la pausa invernale di una campagna militare, per guadagnarsi da vivere Camillo accetta di servire come manovale nel convento dei cappuccini di Manfredonia (Foggia). Mandato una volta per una commissione al convento di S. Giovanni Rotondo, è colpito dalle esortazioni del padre guardiano, frate Angelo. La mattina seguente, il 2 febbraio 1575, mentre lascia il convento e ritorna verso Manfredonia, è interiormente folgorato dalla grazia di Dio (“a similitudine d’un altro S. Paolo”, scriverà il suo biografo): capisce di aver sbagliato tutto, si vede un fallito, si pente della vita passata e chiede perdono a Dio, decidendo di cambiare radicalmente vita. Camillo ha 25 anni: è il giorno della sua conversione.
In convento notano subito la sua trasformazione, tanto da guadagnarsi il nome di “frate Umile”. Così chiede di iniziare il noviziato. Ma il ruvido saio, battendo sul collo del piede, gli riapre la piaga alla gamba. Interrompe il noviziato e ritorna a farsi curare all’ospedale di S. Giacomo a Roma. Tutti sono stupiti del cambiamento avvenuto in lui: è un malato esemplare, e in più si dedica ad assistere i più bisognosi. Ben presto si attira la stima dei responsabili dell’ospedale e gli vengono affidati incarichi importanti.
Dopo quasi 4 anni di permanenza in ospedale, completamente guarito, chiede di riprendere il noviziato. Ma presto si riapre la piaga al piede e Camillo si convince che il Signore non lo vuole frate cappuccino, ma al servizio dei malati in ospedale.
Ritorna per la terza volta all’ospedale di S. Giacomo, dove è subito ben accolto; gli amministratori lo nominano “maestro di casa”, cioè economo generale e responsabile del personale. Si dedica a servire i malati e a organizzare con abilità il personale, che spesso trascura il suo dovere. Controlla in maniera rigorosa le forniture di cibo e dei presìdi sanitari dell’ospedale, fino allora fonte di guadagno disonesto per gli amministratori.
Di fronte al degrado e all’abbandono in cui erano lasciati i malati, Camillo aveva tentato in tutti i modi di riformare l’assai scadente assistenza, ma con scarsi risultati. Capisce che da solo non potrà mai farcela, ed è scoraggiato. Una notte ha un’ispirazione: radunare intorno a sé una compagnia di “uomini pii e da bene” che si dedichino al servizio degli infermi non per denaro o per costrizione ma gratuitamente e per amore di Dio, “come farebbe una madre verso l’unico figlio malato”. Lo stesso Crocifisso, appeso alla parete della sua stanza, lo incoraggia (è stato un sogno? una visione?) ad andare avanti nonostante le difficoltà che lo stavano spingendo a desistere: “Coraggio, pusillanime! Non aver paura. L’opera che hai iniziato non è tua, è mia”.
Ben presto un gruppetto di amici dell’ospedale si unisce a lui. Si incontrano e pregano insieme, parlando tra loro dei bisogni dei malati e di come provvedervi. Ma gli amministratori dell’ospedale guardano con sospetto al nuovo gruppo: temono che vogliano impadronirsi dell’amministrazione dell’ospedale (redditizia…), e gli creano ostacoli e difficoltà. Così Camillo e i compagni lasciano il S. Giacomo e vanno a prestare servizio nel vicino ospedale di Santo Spirito e anche nelle case private.
A 35 anni Camillo, non più giovane, affronta gli studi di teologia e viene ordinato sacerdote. Il gruppo, che va ogni giorno crescendo, continua ad assistere i malati attirandosi l’ammirazione della gente e delle autorità della Chiesa. Così nel 1586 il papa Sisto V approva la “Compagnia” fondata da Camillo con il nome di “Congregazione dei Ministri degli Infermi”, autorizzandoli a portare sull’abito talare una croce rossa come segno dell’amore di Cristo (il colore rosso) e del suo sacrificio (la croce).
L’anno 1590 una grave carestia colpisce Roma e si diffonde la peste. Camillo organizza l’assistenza ai malati e il soccorso ai poveri in diversi punti della città. Cinque compagni muoiono per il contagio. Il papa Gregorio XIV, colpito dall’eroismo dimostrato dalla nuova Congregazione, la costituisce in “Ordine dei Chierici Regolari Ministri degli Infermi”, che sarà il nome ufficiale definitivo dell’Istituto.
In pochi anni il nuovo Istituto si espande, chiamato nei maggiori ospedali italiani dell’epoca. Nel 1594 i camilliani assumono il servizio dell’ospedale “Ca’ Granda” di Milano. Sarà proprio qui che Camillo nel 1613 redigerà le “Regole per servire con ogni perfezione i poveri infermi”, un vero e proprio mansionario per gli infermieri.
Si susseguono in rapida successione le fondazioni in Italia e più tardi all’estero. Spesso i religiosi corrono (o sono chiamati) proprio là dove ci sono pestilenze. In pochi anni, vivente ancora il fondatore, tantissimi padri e fratelli muoiono vittime della peste per aver assistito i malati contagiosi, veri “martiri della carità”.
Camillo muore il 14 luglio 1614, all’età di 64 anni. Il giorno seguente, sono numerosissimi i fedeli che visitano la salma. “Andiamo a vedere il santo!”, è il passaparola che si diffonde in un baleno. Nel 1746 il papa Benedetto XIV proclama Camillo de Lellis santo, definendolo “iniziatore di una nuova scuola di carità”, per il modo con cui ha saputo assistere i malati e insegnare ad altri il modo di servirli. Un secolo più tardi verrà proclamato, insieme a san Giovanni di Dio (fondatore dei Fatebenefratelli), “Patrono di tutti i malati e ospedali del mondo” e da Pio XII “Protettore del personale ospedaliero”.
Dalla riforma di ieri, un’ispirazione per oggi
Ai primi compagni che hanno accettato di condividere il suo ideale, Camillo ha dato alcune regole di base:
- Prestare servizio a tutti gli ammalati, senza discriminazioni, nei bisogni del corpo e spirituali, non per profitto personale ma “per vero amor di Dio” e in nome della solidarietà umana e cristiana verso chi soffre.
- Tra tutti, prediligere specialmente i più poveri e gravi (i suoi religiosi erano proprio specializzati nell’accompagnamento ai morenti, tanto che in alcune città italiane i camilliani erano conosciuti con il nome di “Padri della buona morte”).
- Non limitarsi a curare quelli ricoverati negli ospedali, ma andare a cercarli per le strade e nelle case private.
- Considerare il malato come il padrone dell’ospedale e il centro dell’azione assistenziale e il medico/infermiere/amministratore come suo dipendente e “servitore” .
- Accostarsi ad ogni singolo sofferente come se non ci fosse che lui, senza badare all’orologio, accudendolo con quella premura e amore con cui una madre curerebbe il suo unico figlio malato.
Camillo de Lellis ha dedicato 40 anni di vita alla realizzazione di questo progetto, dando un contributo decisivo alla riforma dell’assistenza sanitaria. Non limitandosi a curare lui stesso ammalati, moribondi, lebbrosi e appestati, ma anche insegnando ad altri il modo di servire gli infermi.
Dopo di lui, altri uomini e donne hanno condiviso la stessa ispirazione ideale e come suoi “figli” e continuatori si dedicano al servizio degli ammalati nei più svariati ambiti sociali, nei cinque continenti.
“Più cuore in quelle mani, fratello!” ripeteva Camillo. Le mani rappresentano le abilità tecniche e la competenza professionale, il cuore richiama le attitudini umane che accompagnano e danno completezza al gesto professionale. Se mani e cuore / scienza e umanità sono disgiunte, non si può offrire un’assistenza adeguata.
Dobbiamo considerare illusorio trasporre nella sanità del nostro tempo lo stile e i princìpi attuati 4 secoli fa da Camillo de Lellis? Le condizioni sociali della sua epoca erano decisamente più difficili delle attuali. E la sanità di allora appariva assai più inefficiente e irreformabile di quella nostra. Ma Camillo ha creduto che, cominciando per primo, si poteva cambiare qualcosa e insieme ai suoi compagni ha avuto la forza e il coraggio per realizzare la sua utopia.
Ecco perché dopo 400 anni continuiamo a guardare a lui e a lasciarci ispirare dal suo esempio e dai suoi insegnamenti. La Chiesa ce lo indica come modello e ce lo propone come patrono di chi soffre e di chi si prende cura dei malati.
I dieci comandamenti (non scritti) di san Camillo de Lellis
1. Onorerai la dignità e la sacralità della mia persona, immagine del Cristo.
2. Mi servirai, come madre affettuosa e tenerissima, con tutto il cuore, con tutta l'intelligenza, con tutta la fantasia, con tutte le forze e con tutto il tuo tempo.
3. Ricordati di dimenticare te stesso.
4. Non nominare il nome della carità invano. Parlerai di preferenza con i piedi, le ginocchia e soprattutto con le mani.
5. Non commettere distrazioni.
6. Non uccidere la mia speranza con la fretta, l'impreparazione, l'indelicatezza, l'irritazione, l'impazienza.
7. Mi considererai un tutto. E tu ci sarai tutto in quello che fai. Perciò non rinchiudermi in una cartella clinica e non nasconderti dietro il tuo ruolo professionale.
8. Non sconsacrare il tuo cuore con il pensiero del denaro.
9. Desidera fortemente la mia guarigione. Mettiti bene in testa che sono entrato in ospedale per uscirne sano, il più presto possibile.
10. Non esitare a rubare il mio peso, ad impossessarti della mia sofferenza. Quando non puoi togliermi il dolore almeno condividilo.
... E quando avrai fatto tutto quello che devi fare, quando sarai stato ciò che devi essere, quando non ti sarai tirato indietro di fronte a nessuna incombenza fastidiosa e a nessun compito ripugnante... non scordare di ringraziarmi!
Servire gli infermi, anche appestati, con rischio della vita.
Con la maggiore diligenza possibile, con l’affetto di una madre verso il suo unico figlio infermo e guardando il povero come la persona di Cristo.
LETTURA DEL TRANSITO
Gli ultimi giorni terreni di san Camillo de Lellis
È l’anno 1614. Dal 18 maggio, per adeguarsi all’uso comune, Camillo sta nell’infermeria. C’è consulto dei medici. Lui li toglie dall’imbarazzo, anticipando la conclusione: «Son vecchio e vado declinando. Dalla mia piaga esce tanta materia che, a una libbra al giorno, in capo a un anno, sarebbe più di un barile e mezzo di umore… Dio può far miracoli, ma io ritengo di non dover guarire…».
Un’infinità di religiosi, di tutti gli Ordini, sfilano davanti al suo letto. A padre Ferdinando di Santa Maria, Generale dei Carmelitani Scalzi, confida: «Padre, preghi per me e faccia pregare, perché possa far bene quest’ultimo passo della morte. E di questo la prego con le ginocchia in terra, perché sono stato un gran peccatore, giocatore, uomo di mala vita…». A un novizio che il giorno dopo deve fare la professione, raccomanda: «Fratello, quando avrai fatta la professione, e offerto la stessa a Dio per mezzo dei santi voti, subito ricordati di pregar per me, misero peccatore. Prega per questo mostro pieno di difetti e senza spirito. Prega perché il Signore mi conceda la grazia di salvarmi».
Chi lo aveva visto entrare nell’infermeria, sorretto da due compagni, era rimasto impressionato: «…Andando egli tanto incurvato, che la testa quasi gli toccasse le ginocchia» … «Nell’infermeria poteva ascoltare ogni mattina la Santa Messa e attendere puntualmente alle pratiche di regola. Finché poté si sforzò di dire il breviario con l’aiuto di un compagno. Quando non gli riuscì più, chiedeva qualche volta in carità ad alcuni dei suoi sacerdoti di recitarlo in sua presenza» (M. Vanti).
Riceve il Viatico in forma solenne, dalle mani del cardinal Ginnasi, il 2 luglio. Dopo il «Domine non sum dignus», aggiunge: «Signore, io confesso di non aver fatto niente di bene e di essere un miserabile peccatore; perciò, non mi resta che la speranza della vostra misericordia…». Poi raccomanda al confessore di non lasciare più entrare nessun estraneo, perché vuole prepararsi in pace a morire. A padre Marcello che insiste perché riceva alcuni gentiluomini dice: «Fate le mie scuse con questi Signori. Io ho già preso l’Olio Santo, e mi voglio ritirare un poco dentro me stesso. – Padre, questi Signori vengono per consolazione delle loro anime. – Padre Marcello, si muore una volta sola e io devo procurar di morir bene, e così spero di fare con l’aiuto del mio Signore».
Domenica 13 luglio: esige che il “Testamento spirituale” gli venga legato sul corpo dopo la sua morte e lasciato nella sepoltura. Lo fa leggere a voce alta. È il solenne congedo dal proprio corpo, la vigilia della morte. Sul finire della giornata, annuncia: «questa è l’ultima notte». All’alba del 14 luglio, festa di san Bonaventura, ha fretta che si celebri la messa: «sarà l’ultima che sento». Al “memento dei vivi” cava fuori la poca voce che gli resta: «fratelli, aiutatemi. Adesso è tempo: orazione, orazione adesso, acciò il Signore mi salvi». Vuole che si vada in alcuni monasteri che indica lui a chiedere preghiere. Ogni tanto sospira: «Com’è lungo questo giorno». Ringrazia il medico: «Altro medico mi aspetta! ...sto in attesa della chiamata del Signore».
Dopo aver rassicurato i fratelli e riempiti di tanto fervore si immerge in un profondo silenzio; poi riprendendo dice: «Padri e fratelli miei, io domando misericordia a Dio, e perdono al padre Generale qui presente e a tutti di ogni mal esempio che ho potuto dare, assicurando che tutto è proceduto piuttosto dal mio non sapere che da mala volontà. Infine, per quanto mi è concesso da Dio, come padre vostro, nel nome della Santissima Trinità e della Beatissima Vergine, dono a voi, come agli assenti e ai futuri mille benedizioni». Tutti lo abbracciano, soffocando a stento i singhiozzi. Non smette di pregare.
All’Ave della sera recita l’Angelus. Gli offrono del brodo. Rifiuta scusandosi: «Aspettate un altro quarto d’ora. Poi mi ristorerò…». Sono le ultime parole prima di entrare in agonia. Tutti accorrono per la “raccomandazione”. All’invocazione “mite e festoso ti manifesti Cristo Gesù il suo volto”, Camillo si illumina per un istante, e unisce l’ultimo sorriso all’ultimo respiro. Lui quel volto lo conosce da tanto tempo. Sono le 21 e 30 del 14 luglio 1614.
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